Ciao,
Ben ritrovato su The Nuts and Bolts! Io sono Emiliano Morgia: ogni settimana, curo una rassegna delle più importanti notizie dal mondo dell’energia e dell’ambiente, su cui riflettere e dialogare insieme.
👀 Cosa succede, di interessante?
1. Batterie: in 🇬🇧, i NIMBY contro gli accumuli
2. Carbone: la 🇨🇳 tira dritto, per la sicurezza energetica
3. Petrolio: Biden frena sui progetti in Alaska 🇺🇸
4. Incidente nella centrale idroelettrica di Bargi
Batterie: in 🇬🇧 i NIMBY contro gli accumuli:
“E voi a divertirvi andate un po’ più in là”
- Fabrizio de André, Girotondo
Andate a fare la transizione dove casa mia non ci sarà.
Doveva succedere, e alla fine è successo: at last, la sindrome NIMBY ha colpito anche le batterie. Come per il Covid, i sintomi sembrano estendersi a macchia d’olio senza badare troppo alle diverse circostanze socio-politiche e alla fonte di energia (ossia, la natura dei progetti contestati). Che si tratti di impianti nucleari, eolici, fotovoltaici o di accumuli, diventa sempre più arduo realizzare le infrastrutture energetiche di cui avremmo bisogno per la transizione ecologica.
Va bene decarbonizzare, ma Not In My Backyard (letteralmente “non nel mio cortile”). Anche se forse, vista la trasversalità dei progetti osteggiati, avrebbe più senso parlare di BANANA:
🍌 BANANA = Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything
Questa volta, a scatenare il putiferio è stato l’ufficio della pianificazione urbanistica di Swale, nel Kent (UK). Le batterie oggetto del contendere sono quelle dell’accumulo da 150 MW per il parco fotovoltaico di Cleve Hill, che si trova ca. a un miglio a nord-est di Faversham, a 3 miglia a ovest di Whitstable e vicino al villaggio di Graveney.
L’impianto fotovoltaico era stato approvato a maggio 2020 dal Segretario di Stato per le imprese, l’energia e la strategia industriale (a riprova del fatto che le lungaggini non sono una prerogativa 🇮🇹). La potenza di picco degli 880’000 pannelli, estesi su ca. 360 ettari, è di 373 MW: sufficiente per produrre elettricità per 91’000 abitazioni.
Quando c’è il Sole, s’intende. E questo è il motivo dei 150 MW di batterie.
Per me, l’aspetto più interessante della notizia è il motivo della contestazione.
A quanto pare, l'aspetto che desta maggior timore è l’eventualità di incendi. Secondo sir David Melville, fisico (!) e vicepresidente della Faversham Society, il problema è in modo particolare la chimica delle batterie agli ioni litio scelte per il progetto di Cleve Hill: quelle di tipo LFP.
“We know about fires or explosions and these batteries that are being proposed here are more liable to explosion than other types of batteries […] it’s almost inevitable that there will be a fire at some point in this battery storage system during its 40 year lifetime.”
LFP è solo un modo breve per indicare la composizione del materiale attivo catodico: in questo caso, litio-ferro-fosfato. Un altro tipo parecchio diffuso di batterie agli ioni litio (il principale “rivale” per LFP) è NMC: che sta per Nichel, Manganese, Cobalto.
Per i primi sistemi di accumulo stazionario, NMC era la chimica più diffusa (la “fetta” in blu scuro del grafico qui sotto). Tuttavia, come si vede dall’andamento nel tempo, le cose stanno cambiando in fretta; le ragioni tecniche che ci stanno dietro hanno a che fare con le obiezioni di Sir David Melville, solo non nel modo in cui pensa lui.
I motivi per i quali le batterie NMC erano preferite sono, sostanzialmente, due:
maggiore densità energetica
prestazioni meno sensibili al meteo, in particolare al freddo
Le due principali contropartite: maggiori costi (per via di nichel e cobalto) e minore stabilità chimica. Esattamente l’opposto di quanto sostiene sir David: se parliamo di rischio d’incendio, le batterie LFP sono le più sicure. Vuol dire che vanno incontro a thermal runaway a temperature più alte (ca. 270 °C) rispetto a quelle NMC (210 °C).
Fin qui, si potrebbe dire, niente di nuovo. Come da copione, ogni qual volta i NIMBY fanno sentire la propria voce, alla base di tutto sembra esserci un caso da manuale di scarsa informazione: paure non giustificate dal punto di vista tecnico, alimentate da una scarsa dimestichezza con gli standard di sicurezza incredibilmente elevati) che abbiamo al giorno d’oggi.
Quel che, però, sir David Melville e la Faversham Society non immaginano è l’effetto paradossale di questa scarsa informazione. “Paradossale” proprio perché penalizza, in generale, tutti i progetti energetici ma in maggior misura proprio quelli legati a fonti rinnovabili. La realizzazione di qualsiasi impianto, infatti, poggia su un’analisi costi-benefici: essa ha lo scopo di valutare dopo quanto tempo il denaro speso per costruire l’impianto si ripaga, in base alle revenue attese dall’energia prodotta.
💭 Più la sindrome NIMBY si diffonde a macchia d’olio, più aumenta il tempo necessario a realizzare un impianto e dunque il suo costo – facendo così pendere l’ago della bilancia nell’analisi verso una valutazione non favorevole.
Questo vale a maggior ragione per fonti rinnovabili non programmabili, che sono fuel-less (ovvero con un costo marginale del kWh prodotto pressoché uguale a zero) ma che, d’altra parte, determinano una serie di costi di sistema a carico della rete elettrica per via della loro intermittenza.
Costi che la sindrome NIMBY non può che far lievitare.
Tanto per farci un’idea: questo studio del 2021, incentrato sui progetti eolici, dimostra con i dati alla mano come il fenomeno delle opposizioni NIMBY contribuisca a creare “un’errata allocazione sistematica degli investimenti, che potrebbe aver determinato un incremento dei costi di diffusione dell'energia eolica del 10-29%”.
A riprova di come il NIMBYismo sia un orientamento di elettori agiati e disinformati, che non comprendono appieno quanto il nostro sviluppo dipenda dalla disponibilità di energia abbondante e a costi contenuti:
Garantire questa abbondanza, contenere i costi e insieme contrastare il cambiamento climatico richiede (e richiederà sempre più) scelte ponderate e informate su impianti che inevitabilmente hanno impatti sulla quotidianità delle comunità locali. Comunità che hanno bisogno di sentirsi “viste”, grazie al fatto che le loro preoccupazioni sono prese in considerazione e, quando infondate, debitamente smentite.
Senza la loro partecipazione razionale, rischiamo di fare poco e tardi.
Carbone: la 🇨🇳 tira dritto, per la sicurezza energetica
Basta carbone? Non così in fretta.
A 2 anni dalla COP26 di Glasgow, dove le negoziazioni sul clima si erano impegnate a relegare questo combustibile al passato, una serie di fattori sembrano aver prolungato l’addio. Si parla molto dell’aumento di domanda in India, degli strascichi della guerra in Ucraina e dell’inadeguatezza dei programmi internazionali - le JETP, o Just Energy Transition Partnerships - mirati a veicolare risorse finanziarie verso i Paesi che ancora dipendono molto dal carbone.
Tuttavia, nessun fattore sembra pesare quanto la Cina.
Il 2023 ha visto un aumento record della capacità globale di centrali termoelettriche a carbone, trainata da un’impennata di nuovi impianti in Cina (e acuita da un generale rallentamento delle dismissioni in Europa, a seguito della guerra in Ucraina).
Il parco di centrali a carbone mondiale è cresciuto del 2% toccando i 2’130 GW, con la Cina che pesa per circa due terzi dell'incremento seguita da Indonesia e India. Per di più, sempre l’anno scorso Pechino ha avviato la costruzione di altri 70 GW di nuove centrali, quasi 20 volte più del resto del mondo messo insieme.
La versione del governo cinese è che queste centrali saranno utilizzate principalmente per bilanciare la generazione intermittente dalle fonti rinnovabili non programmabili, come fotovoltaico ed eolico. Un fondo di verità c’è, come si può notare guardando alle variazioni storiche nel fattore di carico delle rinnovabili: i dati degli ultimi tre decenni mostrano come in Cina l’idroelettrico abbia uno spread di ca. 10 punti % tra il valore minimo e massimo del fattore di carico, mentre per l’eolico e il fotovoltaico lo spread vale rispettivamente 8% e 5%. Siccome la capacità (i GW di potenza installata) di tali fonti in Cina è molto grande, queste fluttuazioni possono avere ripercussioni non del tutto trascurabili sul consumo di carbone.
Tuttavia, è palese che questo boom nella programmazione di nuovi impianti a carbone mette a rischio gli obiettivi di riduzione delle emissioni nel breve (specialmente da qui al 2025) e solleva perplessità sugli impegni climatici della Cina: l’impressione è che, di fronte alla force majeure della geopolitica, per Pechino il clima passi in secondo piano.
Petrolio: Biden frena sui progetti in Alaska 🇺🇸
Quale futuro per il petrolio in Alaska?
A marzo dello scorso anno, erano scoppiate le polemiche per l’approvazione data al progetto Willow della ConocoPhillips, che prevedeva la trivellazione di tre pozzi in siti diversi nella National Petroleum Reserve. Questo è il più grande appezzamento di suolo pubblico negli Stati Uniti: 9.3 milioni di ettari della North Slope in Alaska, che un secolo fa governo aveva adibito a riserva petrolifera di emergenza.
Greggio totale in place 576 milioni di barili, da estrarre nell’arco di 30 anni. Valore di produzione di picco 180’000 barili di greggio al giorno: un valore enorme, che infatti aveva sollevato un vespaio contro la decisione presa dal Bureau of Land Management del Dipartimento degli Interni. Potenzialmente, il solo Willow genererebbe più di due volte la CO2 che tutti i progetti legati alle rinnovabili da realizzare su suolo pubblico, messi insieme, avrebbero tagliato entro il 2030.
Ora che le elezioni si avvicinano, Biden cerca di correre ai ripari.
La proposta di regolamento cui sta lavorando il Dipartimento degli Interni limiterà gli sviluppo petroliferi futuri su ca. 5.3 milioni di ettari di “aree speciali” designate, tra le quali sono compresi territori attualmente in concessione. Inoltre, vi sarebbe:
Un divieto assoluto di nuove concessioni su 4.3 milioni di ettari
Un programma formale per espandere tali aree protette, almeno una volta ogni cinque anni, rendendo difficile annullare tali designazioni.
Il Dipartimento dell’Interno ha detto di non aspettarsi che il regolamento abbia degli effetti significativi sull’approvvigionamento energetico nazionale. Tuttavia, se il solo Willow 576 milioni di barili, secondo una stima del 2017 da parte del U.S. Geological Survey le formazioni rocciose sotto l’intera riserva ne contengono ca. 8.7 miliardi. In particolare, l’entusiasmo per la North Slope era aumentato dopo recenti scoperte nella formazione di Nanushuk: tanto è vero che lo stato dell'Alaska prevedeva di aumentare la produzione di greggio dai 15’800 barili al giorno del 2023 a 139’600 nel 2033.
La proposta, se punta a far guadagnare punti a Biden presso gli elettori democratici, non è stata accolta con entusiasmo dalle società petrolifere coinvolte nello sviluppo della National Petroleum Reserve, che era vista come un importante motore di crescita per il settore prima che arrivasse il boom del gas di scisto.
“The current statute says that the primary purpose is to increase domestic oil supply as expeditiously as possible […] but the rule takes a completely different premise.”
- Kara Moriarty, Presidente dell'Alaska Oil and Gas Association
Incidente nella centrale elettrica di Bargi
L’energia è abilità, ma anche rischio.
Di questa cosa, a un qualche livello, siamo tutti consapevoli - solo che preferiamo non parlarne troppo. Farlo, infatti, vorrebbe dire prendere in esame le trasformazioni a cui sottoponiamo l’ambiente, valutarne in modo lucido i benefici e soppesarli rispetto alla terribile alternativa: quella di una vita solitary, poor, nasty, brutish, and short, al punto da aver spinto i nostri progenitori fuori dalle grotte.
Con tutti gli inconvenienti e i rischi del caso 🌋
“Mi risulta che da queste parti ci sono undici vulcani, Edward… non dodici! Guai in arrivo, quindi, e ho subodorato che c’entravi tu. Sperando ancora, assurdamente, ma con il cuore stretto, sono corso qui. Avevo ragione. Vulcani privati, nientemeno! Stavolta l’hai fatta proprio grossa, Edward!”
- Roy Lewis, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene
Ogni tanto, però, ci riscuotiamo.
Come intorno alle ore 15 del 9 aprile, subito dopo quella che al momento pare essere stata un’esplosione al piano -8 della centrale idroelettrica di Bargi, posto a 40 metri di profondità rispetto al livello del lago artificiale di Suviana.
A seguito di questa “esplosione”, sarebbe crollato un solaio portando all’allagamento dei piani -9 e -8 della centrale. Questo, in particolare, il dettaglio che ha resto molto complicate le attività di ricerca e salvataggio da parte del Vigili del Fuoco, che hanno impiegato tre giorni a ritrovare i dispersi. La diga non è stata coinvolta, ma il bilancio finale è tragico: morti sette operai coinvolti nel collaudo degli impianti e altre cinque persone ferite.
Come se non bastasse, anche le indagini si preannunciano complicate: la procura di Bologna ha disposto il sequestro dei piani inferiori della centrale, tuttavia questi ora sono ostruiti da macerie e danneggiati dall’acqua che li ha invasi fin da martedì. Al momento, non è chiaro quale sia stata l’origine del guasto. Infatti, al piano -8 non era presente alcun componente che potesse esplodere. Le due turbine di tipo Francis ad asse verticale, da 165 MW ciascuna, sono oggetti puramente meccanici.
Non elaborano una miscela infiammabile, ma semplicemente acqua. Questa, quando la centrale produce energia, si trova stoccata nel lago del Brasimone, che si trova 375 metri più in alto del lago di Suviana.
Da lì, l’acqua viene passa in due condotte forzate e viene convogliata verso le turbine: la sua energia potenziale gravitazionale (legala al dislivello) diventa cinetica e questa viene trasmessa dall’acqua ai rotori delle turbine, che vengono trascinati in moto. Le turbine, però, sono collegate a due alternatori che convertono l’energia meccanica in elettrica - generano, cioè, la tensione che viene trasformata e immessa in rete.
L’ipotesi più accreditata al momento è che il guasto sia partito da qui: i due alternatori sono, infatti, gli unici sistemi in tutta la centrale in cui c’è qualcosa di infiammabile: si tratta dell’olio dei cuscinetti, che ha lo scopo di lubrificare e agevolare il rotolamento dei corpi volventi al loro interno. Gli alternatori, infatti, sono molto pesanti (tra le 140-150 tonnellate) e i loro rotori girano a velocità angolari altissime (370 giri al minuto) - cosa che rende di primaria importanza ridurre l’attrito.
Indipendentemente da quali saranno le cause accertate dell’incidente, di una cosa si può (ancora) essere ragionevolmente certi: l’idroelettrico è una fonte di energia tra le più sicure e pulite. Eventi singoli come quello di Bargi, e anche molto peggiori come il disastro del Gleno nel 1923 (356 vittime) o quello del Vajont nel 1963 (1’917 vittime), non cambiano il trend statistico macroscopico.
Sul fronte della sicurezza: se le cifre espresse per terawattora di elettricità prodotta sembrano poco concrete, ci possiamo aiutare con un’immagine. Pensiamo a una città italiana scelta quasi a caso, come Rimini: dico “quasi” perché Rimini ha circa 150’000 abitanti e torna comoda dal momento che consuma circa 1 terawattora di elettricità all’anno.
Se Rimini producesse tutta l’elettricità che consuma, e la producesse tutta a partire dal carbone, potremmo aspettarci circa 25 vittime in un anno - la maggior parte di queste legate all’inquinamento atmosferico.
Carbone: in media, 25 vittime all’anno;
Petrolio: in media, 18 vittime all’anno;
Gas naturale: in media, 3 vittime all’anno;
Idroelettrico: in media, 1 vittima all’anno;
Eolico: in media, nessuna vittima in un anno. Un tasso di mortalità di 0.04 vittime per terawattora vuol dire che si avrebbe una vittima ogni 25 anni;
Nucleare: in media, una vittima ogni 33 anni;
Fotovoltaico: in media, una vittima ogni 50 anni.
Sul fronte delle emissioni: l’idroelettrico è il convitato di pietra tra le rinnovabili. Se si parla di fonti rinnovabili, infatti, istintivamente pensiamo ai pannelli fotovoltaici o ai generatori eolici; tuttavia, i dati dicono chiaramente che l’idroelettrico gioca la parte del leone tra le fonti rinnovabili. Secondo i dati di Terna per il 2022, l’idroelettrico ha prodotto circa 30’290 GWh (a dispetto delle prolungate siccità): rispetto al totale dei consumi 283’953 GWh, è il 10.7% (contro il 9.9% del fotovoltaico e il 7.2% dell’eolico).
Oltre alla ridotta impronta di CO2 per kWh prodotto, vi sono anche due questioni da considerare. Per prima cosa, Bargi è una centrale a pompaggio. In altre parole: grazie al fatto che le macchine di tipo Francis sono reversibili (possono funzionare sia come turbine che come pompe), l’impianto si comporta come un’enorme batteria: nelle ore in cui c’è meno richiesta di energia, per es. di notte, l’elettricità in eccesso viene usata per pompare l’acqua dal lago di Suviana fino al Brasimone. In questo modo, la batteria si carica immagazzinando in quel volume d’acqua energia potenziale gravitazionale. Questa stessa energia può essere poi “restituita” facendo scendere l’acqua verso valle (e producendo nuovamente elettricità) quando la richiesta è maggiore.
Infine, la centrale a Bargi fa parte del piano di accensione della rete nazionale in caso di black-out: vuol dire che, se dovesse accadere un black-out su scala nazionale e la rete italiana dovesse essere “riavviata”, Bargi è uno degli impianti di supporto per il black start. Questo perché il suo output è molto ben regolabile, può fare ramp-up ed erogare la sua massima potenza in soli 4 minuti.
Come raccontato qualche settimana fa, per decarbonizzare la rete occorre far sì che il carattere intermittente delle rinnovabili sia compensato dagli accumuli: l’idroelettrico e le centrali a pompaggio saranno due tasselli di cui avremo bisogno in futuro, dunque meglio evitare di nutrire (o peggio: cavalcare) paure ideologiche.
🔊 Resonance frequency
Fabrizio De André - Girotondo (1968)
🧰 Toolbox
International Energy Agency, Coal 2023 - Analysis and forecast to 2026, 2023
Jarvis S., The Economic Costs of NIMBYism, Energy Institute at Haas, 2021
Lewis R., Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, Adelphi, 2001
🎨 Artwork
Pignatti L., TN&B Rundown #7 (2024)
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