👋 Ciao,
Ben ritrovato su The Nuts and Bolts! Io sono Emiliano Morgia: ogni settimana, curo una rassegna delle più importanti notizie dal mondo dell’energia e dell’ambiente, su cui riflettere e dialogare insieme… o forse dovrei dire “quasi ogni settimana”: poiché questa, purtroppo, non ci riesco.
Ho pensato, allora, che fosse l’occasione perfetta per andare un po’ a fondo di questa faccenda: non riuscire a fare le cose, dico. È sempre un vicolo cieco, o a volte si può rivelare fecondo? Grazie della pazienza e buona lettura.
“Non ho fallito. Ho scoperto 10’000 metodi che non hanno funzionato.”
- Thomas Alva Edison
Provare a fare cose nuove, siamo onesti, è un vero casino.
Siamo soliti proclamare, quasi per abitudine, che l’innovazione è il motore prossimo di progresso tecnologico e crescita economica; tuttavia, meno spesso ci “ricordiamo” che il fatto stesso di innovare (o di provarci) comporta sempre - a un qualche livello - l’essere disposti ad accollarsi un rischio.
Anzi, facciamo di peggio: se una nuova tecnologia o invenzione, che di primo acchito sembra promettente, si rivela un buco nell’acqua, parliamo di fallimento. E in questo modo, ci attacchiamo un giudizio morale negativo - sia pure inconsapevole. Questo è un modo di pensare di cui è difficile sovrastimare i danni, anche perché il cosiddetto buon senso gli conferisce un alone di credibilità.
Nelle parole di John Maynard Keynes, la saggezza del mondo sembra dirci che
“[…] è cosa migliore per la reputazione fallire in modo convenzionale, anziché riuscire in modo anticonvenzionale.”
Eppure questo è uno dei casi in cui, credo, la saggezza del mondo ha torto.
Infatti è desiderabile che tutti noi ci assumiamo dei rischi, facciamo dei tentativi e, se sbagliamo, ne paghiamo le conseguenze. Nonostante tutto: nonostante i lividi che ne derivano (perché rischiare è mettere a repentaglio le nostre risorse), è desiderabile. Per noi stessi e per gli altri: scovare modi migliori di fare le cose, infatti, non produce dei vantaggi solo per noi stessi, ma anche per tutti coloro che vi trovano valore e che decidono di adottarli, abbandonando i precedenti.
Benefici diffusi, a fronte di “lividi” individuali, specifici.
Proprio per questo, credo saremmo saggi se parlassimo degli errori in modo più aperto e meno moralistico. Parafrasando Tolstoj: se le innovazioni di successo si somigliano un po’ tutte, ciascun fallimento è unico e contiene la chiave di futuri progressi.
Per innovare, dobbiamo fallire
“Se le cose non falliscono, non stai innovando abbastanza.”
- Elon Musk
Thomas Edison è ricordato per uno sterminato ventaglio di apparecchi rivoluzionari, che hanno migliorato la vita delle persone e posto le basi per gli sviluppi tecnologici nei decenni a venire: dalla la cinepresa al microfono, passando per il fonografo. Però nessuna di queste invenzioni è più famosa della lampadina a incandescenza 💡
O per essere precisi: del filamento di cotone carbonizzato del 21 ottobre 1879, quello che permise alla sua lampadina di raggiungere la durata (per quei tempi, record) di 13 ore e mezzo consecutive. Si dice che, per arrivare a quella versione, Edison abbia fatto 1’200 esperimenti nell’arco di 18 mesi con ca. 6’000 fibre vegetali diverse, al modico costo di $40’000 dell’epoca (circa $1 milione oggi).
Ed Edison non lavoro certo partendo da zero: i suoi 18 mesi di fallimenti, a loro volta, hanno capitalizzato sui fallimenti di molti altri inventori, nei 50 anni precedenti.
Innovare significa provare a fare qualcosa che non è stato mai tentato prima. Proprio come nel caso di Thomas Edison, è un esperimento e il suo risultato è intrinsecamente incerto.
L’errore (o il fallimento) è la norma. Il successo, invece, è un evento di coda.
La stessa storia, infatti, si è riproposta con ogni grande invenzione. Il primo motore a vapore di Thomas Savery si è rivelato un flop. Idem per la prima locomotiva a vapore di Richard Trevithick e i primi motori a combustione interna di Étienne Lenoir, che convertivano in lavoro appena il 4% dell’energia contenuta nel combustibile e che si facevano sempre più rumorosi man mano che li si utilizzava.
Non andò meglio a Rudolf Diesel, che per molto tempo visse alle prese col problema di raffreddare i collettori del suo motore, per evitare che l’accensione della miscela di aria e benzina si accendesse già lì e non (com’era previsto) in camera di combustione. Risultato: i sei mesi previsti per lo sviluppo del motore diventarono quattro anni.
Come se non bastasse, anche dopo che ebbe costruito il primo prototipo funzionante nel 1893, Rudolf Diesel visse sempre afflitto dai problemi di fabbricazione, dai tempi estenuanti per l’ottenimento dei finanziamenti e dalle dispute con Herbert Akroyd Stuart sulla paternità dei brevetti, al punto da scrivere:
“L’introduzione di una nuova invenzione è un’attività che richiede di combattere la stupidita, l’invidia, l’inerzia velenosa e la resistenza - sia furtiva e che aperta - di chi ha conflitti d’interesse […] un’attività estenuante che consiste prevalentemente nel lottare con le persone, un martirio che si deve sopportare anche se l’invenzione è in se valida.”
Non cedere allo sconforto e tentare ancora, è ciò che (a volte) vince.
La storia dei fratelli Orville e Wilbur Wright ne è, forse, la dimostrazione più chiara. Il 7 ottobre del 1903, Samuel Pierpont Langley aveva provato senza successo a far volare il suo Aerodrome - che si era, infatti, schiantato nelle acque del fiume Potomac. Era l’ultimo fallimento di una lunga serie di tentativi, e infatti l’evento del 7 ottobre aveva suscitato un coro di commenti derisori e cinici.
“È verosimile che una macchina volante in grado di farlo davvero possa essere sviluppata dagli sforzi combinati e continui di matematici e meccanici in un arco di tempo compreso tra uno e dieci milioni di anni... Senza dubbio, il problema e avvincente per coloro che si interessano di aviazione, ma per l'uomo comune questo sforzo potrebbe essere impiegato in modo più profittevole.”
📰 The New York Times, Flying machines do not fly, 9 ottobre 1903
Tuttavia, il 17 dicembre (solo 69 giorni dopo l’editoriale sul New York Times), i fratelli Wright riuscirono dove Langley aveva fallito, portando a termine il primo volo con il loro Flyer 1 a Kitty Hawk, in North Carolina: il volo umano non solo era possibile in teoria, ma era già una realtà.
Per fallire, dobbiamo essere liberi
“Se garantiamo la libertà agli uomini perché presumiamo che siano ragionevoli, dobbiamo anche lasciare che essi si facciano carico delle conseguenze delle loro azioni. Questo non significa che un uomo sia sempre il miglior giudice dei suoi interessi; significa soltanto che non possiamo mai sapere con certezza chi possa essere il giudice migliore e che dovremmo fare il massimo uso delle capacità di tutti coloro che possono contribuire allo sforzo comune di rendere il nostro ambiente più adatto agli scopi degli esseri umani.”
- Friedrich von Hayek
Per fallire, però, serve del tempo.
E noi, come individui della nostra specie, non ne abbiamo molto. Infatti, non viviamo a lungo e le conoscenze di cui avremmo bisogno sono “disperse” nella società: non vi è modo, per una singola persona, di raccoglierle tutte o di commettere tutti gli errori che servono per risolvere uno specifico problema.
Da qui, a mio modesto avviso, nasce la riflessione sulla libertà. Non un ideale astratto, anzi: uno strumento concreto con cui noi esseri umani abbiamo provato a risolvere (o per lo meno, mediare) questa tensione. Edison - così come Savery, Trevithick, Lenoir, Diesel e i fratelli Wright - non è partito avendo in tasca la risposta “giusta”: gli sbagli, in gran parte fatti da altri, si sono rivelati fecondi e, infine, hanno prodotto qualcosa di valore.
Le economie dei Paesi nei quali questi inventori hanno operato, e che allora uscivano dalla seconda Rivoluzione industriale, hanno sprigionato tale straordinaria capacità di innovazione proprio in virtù del libero scambio. Grazie alla possibilità di tentare, fallire e condividere le “lessons learned”, Edison, Savery, Trevithick, Lenoir, Diesel e i fratelli Wright hanno messo in moto la conoscenza pregressa.
Legata ai loro propri sbagli, ma soprattutto a quelli di altri.
“Si può affermare che la civiltà ha avuto inizio quando l’individuo, nel perseguire i suoi fini, ha potuto utilizzare conoscenze maggiori di quelle da lui stesso acquisite e quando, approfittando di una conoscenza che egli stesso non possedeva, è potuto uscire dai confini della sua ignoranza.”
- Friedrich von Hayek
Quando prendiamo un volo per lavoro o per andare a trovare una persona cara, noi beneficiamo del lavoro di Wilbur e Orville Wright, dei loro sforzi: ma anche, forse soprattutto, di quelli precedenti di Langley; delle esperienze che lui aveva raccolto, delle nozioni che lui aveva appreso. In questo senso, lungi dall’essere stato un rivale acerrimo dei fratelli Wright, in realtà Langley è stato un loro prezioso alleato.
Questo legame tra rischio individuale e beneficio diffuso è un risvolto dell’ordine di mercato un po’ controintuitivo; o quantomeno difficile da afferrare per la parte tribale del nostro cervello. Dopotutto, se ce ne “dimentichiamo” spesso, non è un caso: tra la psicologia sociale arcaica, tipica di gruppi chiusi e di piccole dimensioni, e quella del libero scambio, che ha permesso lo sviluppo di civiltà estese basate sulla divisione del lavoro e sulla libertà individuale, c’è un divario.
Questo divario, apparentemente lontano dall’economia, è stato al centro dell’analisi di Friedrich von Hayek. Lo racconta in modo godibile e avvincente
nel suo saggio Contro la tribù: Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna 👇“La civiltà è un gigantesco strumento per fare economia di conoscenza. È ormai un luogo comune dire che la tecnologia ci rende stupidi, non senza un po’ di malinconia per i tempi delle enciclopedie vendute per corrispondenza. Nondimeno, sotto molti aspetti, il progresso è precisamente questo: beneficiare sempre di più della conoscenza altrui, godere dei vantaggi di strumenti, tecnologie, macchinari, che per molti di noi sono indistinguibili da trucchi magici se non fosse che sappiamo che non lo sono.”
Non a caso, per descrivere l’ordine di mercato, Hayek usava la parola “catallassi”: dal verbo greco καταλλάσσω, che vuol dire non solo “scambio” ma anche “ammetto nella comunità” e “divento da nemico, amico”. Wilbur e Orville Wright non hanno dovuto ri-apprendere tutti gli errori di Langley e, allo stesso modo, ciascuno di noi non deve imparare come si realizza e si pilota un Boeing 747: nel mercato, ci sono aziende che, in cambio di denaro, mettono a nostra disposizione queste capacità.
È su questo meccanismo, vale la pena ricordarlo, che abbiamo costruito il benessere in cui viviamo. Nel 1800, noi italiani (alla stregua di altri) spendevamo in media ca. €3 al giorno, mentre oggi ne spendiamo 85. Se la nostra capacità di spesa è cresciuta di 28 volte, lo dobbiamo in larga parte alla ricchezza portata dalle innovazioni di inventori come Volta, Marconi e Fermi.
Il fatto che siamo limitati e ignoranti non limita il nostro potenziale.
Non importa se siamo fallibili. Anzi: proprio perché lo siamo, ne possiamo trarre un vantaggio, se lasciamo che ciascuno sia libero di provare e riprovare - come riesce - a offrire qualcosa di valore al prossimo, risolvendo un problema specifico.
Non importa se nessuno possiede tutte le conoscenze necessarie. Possiamo sfruttare e mettere in azione l’esperienza accumulata dagli altri, a patto di garantirci a vicenda la facoltà di agire liberamente e di occuparci delle nostre faccende, senza che ciò sia impedito o regolamentato da altri.
È quello che Deirdre McCloskey definisce il “contratto borghese”, sul quale abbiamo costruito il progresso del mondo moderno.
“Tu consenti a me, borghese, di provare a migliorare il modo in cui si fanno auto, tubature o ascensori e di sottoporre il risultato alla prova dello scambio, senza protezionismi o sussidi o regolamentazioni o licenze o socialismo e io ti renderò ricco.”
Ha funzionato, funziona e funzionerà ancora. Ciò che, anche oggi, sembra richiedere dieci milioni di anni può essere alla nostra portata da qui a 69 giorni 📅
💬 “E se volessi saperne di più? Capire meglio perché le strade dell’innovazione non sono mai lineari, e come mai gli errori si rivelino spesso più produttivi del previsto?”
Per non sbagliare - è proprio il caso di dirlo! - ti consiglio di fare un salto in libreria (o su Amazon) e di procurarti una copia del nuovo libro di GB Zorzoli: “Gli errori fecondi – Come gli sbagli possono contribuire al progresso” (Il Mulino).
🎙️ Qui la sua intervista, con Carlo Stagnaro per il podcast LeoniFiles 👇
🔊 Resonance frequency
🩹 “Show your scars / Bleeding your soul in a hard luck story”
🧰 Toolbox
von Hayek F. A., Conoscenza e progresso sociale, Rubbettino, 2023
von Hayek F. A., La presunzione fatale, IBL Libri, 2024
Mingardi A., Contro la tribù: Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna, Marsilio, 2020
Zorzoli GB, Gli errori fecondi. Come uno sbaglio può contribuire al progresso, Il Mulino, 2024
🎨 Artwork
Pignatti L., Tinkering (2024)
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